Nel 2013 esordisce al cinema il celebre “The Wolf of Wall Street”, che raccontava i successi e gli eccessi di Jordan Belfort. Se oggi Martin Scorsese avesse voluto girare un film incentrato sui meccanismi della Borsa americana, probabilmente avrebbe deciso di impostarlo sul genere fantascientifico, chiedendo a Di Caprio di interpretare i pensieri di una macchina, di un algoritmo. Fantascienza o plausibile realtà?
Fino a qualche anno fa, lo stock market era organizzato in stanze molto ampie, contenenti computer costantemente aggiornati, grazie ai quali gli investitori si occupavano di trading, circondati dalla folla di intermediari finanziari che si occupavano della compravendita di titoli. Recentemente, le stanze e i computer sono rimasti, ma la folla frenetica si è drasticamente ridotta.
Secondo Aite Group, nel 2018 i robot hanno gestito circa il 53% degli scambi delle azioni globali cash, percentuale che negli Stati Uniti raggiunge il 70%. Le ragioni alla base di questa dinamica sono molteplici: in primis legate all’esigenza di liquidità, di maggiore efficienza e infine alla volontà di sfruttare gli andamenti dei prezzi al meglio del loro potenziale. Il minimo comune denominatore di queste motivazioni è la crescente complessità dei mercati borsistici e per questo molti esperti ritengono che un algoritmo possa essere più affidabile nella gestione di tale complessità.
Il cervello umano ha infatti dei limiti insormontabili nel processare una certa quantità di dati ad una certa velocità, che questa linea del tempo di processazione delle informazioni illustra:
Un esempio di questo gap di velocità tra robot e cervello umano coinvolge il colosso americano HP che, il 18 Agosto 2011 alle 12:08:12 comunica, tramite Bloomberg, la propria volontà di realizzare lo spin-off del business dei PC. Quello che accadde in 4 secondi fu un aumento del 13% del prezzo azionario. 4 secondi, riprendendo lo schema precedente, è il tempo che l’essere umano impiega per leggere il tweet di HP. Quando accadeva ciò era solo il 2011; già 10 anni fa, gli algoritmi leggevano le news e impiegavano pochi secondi per smuovere il mercato borsistico.
Il mondo dell’algorithmic trading è vastissimo, qua ci occuperemo di una sua sottocategoria: gli High Frequency Trading (HFT), considerati l’ultimo stadio del processo di evoluzione del trading algoritmico. Con HFT si indica un “insieme di processi di trading che grazie agli algoritmi consente l’elaborazione e la successiva reazione operativa ai dati presenti nei mercati finanziari, il tutto effettuato a una velocità e a una frequenza di esecuzione estremamente elevate”. Le decisioni vengono prese in frazioni di secondo e hanno il potere di avere un forte impatto provocando grandi movimenti sul mercato borsistico. I modelli matematici e gli algoritmi utilizzati per analizzare i mercati e individuare le tendenze emergenti non includono una variabile nell’equazione: l’intervento umano; questo non sembra destare particolari critiche poiché l’intelligenza artificiale non può commettere errori, in quanto dotata di una razionalità perfetta. È lei il vero homo oeconomicus.
Qualche volta però succede che anche l’algoritmo e la macchina sbaglino.
Uno degli avvenimenti che ha segnato il mondo della finanza è “The Flash Crash of 2:45”. Il termine “flash crash” indica il fenomeno per cui un mercato borsistico precipita in pochi minuti e poi “rimbalza”. Ed è proprio quello che si è verificato con l’improvviso crollo dell’indice Dow Jones il 6 maggio 2010, giorno in cui ha subito il più grande calo di punti intraday di sempre. La causa fu identificata in una singola transazione generata da un software di negoziazione ad alta frequenza che ha determinato una notevole variazione nel prezzo delle azioni della Waddell & Reed Financial e conseguentemente, per effetto dell’ingente presenza di algoritmi di HFT, un effetto a catena sull’intero mercato.
L’emblema di quello che si è verificato è che nessun esperto, né gli ingegneri né i wolfs a Wall Street, sono tutt’ora in grado di dare una risposta a ciò che è accaduto.
Inoltre, il reale pericolo è che uno di questi crash potrebbe provocare una recessione.
Gli algoritmi, quindi confermano il divario tra mercati reali e mercati finanziari, e l’idea di una spirale recessiva innescata dalla vulnerabilità dell’intelligenza artificiale appare sempre più realtà e meno fantascienza.
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